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Il tempo sospeso e il mistero del Secondo Sonno..

Buona lettura!


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Tra le pietre del Molino Maufet, il tempo sembra ancora scorrere con un ritmo diverso. Chi vi entra percepisce un battito antico, come se l’acqua che da secoli attraversa la Roggia Molinaria di Fontanedo sapesse ancora dettare la misura delle ore. Non quella frenetica e lineare dell’orologio moderno, ma una circolarità viva, simile a un respiro che si ripete: l’acqua che scorre, la ruota che gira, il giorno che ritorna.Prima della Rivoluzione Industriale — e prima che la luce elettrica conquistasse la notte — la vita era scandita da cicli naturali, lenti e regolari, intrecciati con i ritmi della terra e delle stagioni. Anche il sonno umano ne faceva parte. Non era unico e compatto come oggi, ma bifasico, diviso in due momenti distinti: il primo sonno e il secondo sonno. Due battiti, due silenzi. Due respiri della stessa notte.Era un’abitudine universale, radicata in tutta Europa e presente anche nelle valli del Lario, dove il lavoro dei campi e dei mulini seguiva il ciclo del sole, della semina e del raccolto. Dormire, in quell’epoca, non significava “sospendere” la vita, ma ascoltarla: era un tempo di immersione e di ritorno, di pause e riprese, proprio come il movimento dell’acqua nel canale molinario.


Un ritmo antico, come quello dell’acqua


Gli abitanti di Villatico, un tempo, vivevano seguendo il respiro della luce. Con il calare del sole si concludevano le attività: si riponevano gli attrezzi, si chiudevano le imposte, si accendeva la brace. Dopo cena — semplice, condivisa, rischiarata dal fuoco — ci si ritirava presto. Era il momento del “primo sonno”, profondo e rigenerante, in cui il corpo ritrovava forza dopo una giornata di lavoro fisico. Ma verso la mezzanotte, accadeva qualcosa di naturale e previsto: le persone si risvegliavano. Non era insonnia, ma parte di un ritmo biologico antico. Si ravvivava il fuoco, si controllavano gli animali nella stalla, si accudivano i bambini. Le donne cucivano o pregavano; gli uomini uscivano brevemente per osservare il cielo o ascoltare il rumore dell’acqua.Tra il primo e il secondo sonno esisteva un’ora sospesa, un tempo intermedio fatto di quiete e pensiero. Si diceva che fosse l’ora più limpida, quella in cui il silenzio aveva un suono e l’acqua della roggia sembrava rallentare. Era il momento in cui la mente si faceva più lucida e il cuore più leggero, quando si poteva riflettere, scrivere, pregare o semplicemente stare.Poi, intorno alle due o tre del mattino, ci si coricava di nuovo, avvolti nella coperta pesante, e cominciava il secondo sonno, dolce e profondo, fino al primo canto del gallo o al chiarore dell’alba. Quando il sole saliva dietro i monti e la ruota del mulino riprendeva a girare, il mondo tornava a muoversi. Il ciclo si chiudeva, pronto a ricominciare.


Una notte in due atti


Il fenomeno del biphasic sleep — il sonno diviso in due fasi — è oggi riconosciuto come una delle forme più naturali di riposo umano. Lo storico Roger Ekirch, nel volume At Day’s Close: Night in Times Past, ha raccolto centinaia di testimonianze: lettere, diari, registri legali, testi letterari dal Medioevo al Settecento. Molti parlano apertamente di first sleep e second sleep come di una consuetudine quotidiana, condivisa da ogni classe sociale.Anche nei dialetti lombardi e nei racconti orali delle valli si trovano tracce di questo ritmo: il risvèi de mezanót (“risveglio di mezzanotte”), il temp de la candèla, il tempo della candela. Era un momento in cui la luce tremolante illuminava le mani, le pagine, le anime. Si scrivevano lettere, si leggevano preghiere, si scambiavano confidenze. Il mulino, sempre vigile, continuava a parlare nel buio: il rumore dell’acqua diventava una nenia costante, un sottofondo che accompagnava sogni e pensieri, come se il paesaggio stesso vegliasse insieme all’uomo.La notte non era un’assenza, ma un tempo doppio, fatto di soglia e profondità. Una “notte in due atti”, in cui la coscienza poteva sostare tra il visibile e l’invisibile, tra la veglia e il sogno.


Il tramonto del secondo sonno


Tutto cambiò con la Rivoluzione Industriale. La luce artificiale, prima a gas poi elettrica, dilatò le ore di attività e cancellò il confine sacro del buio. L’uomo cominciò a vivere secondo orari di fabbrica, non più secondo quelli della natura. Il sonno divenne monofasico, più corto, più compatto, più funzionale al lavoro.Anche i mulini cambiarono volto. Le ruote in legno e ferro, che per secoli avevano girato al ritmo delle stagioni, si fermarono o vennero sostituite da turbine. Le notti si riempirono di altri rumori, e la lentezza cedette il passo alla produttività. Il “secondo sonno” scomparve, come scomparvero le stelle dalle finestre delle case di città. Eppure, in luoghi dove l’acqua continua a scorrere libera — come al Molino Maufet — si può ancora percepire un’eco di quel ritmo perduto: un invito a ricordare che non tutto deve scorrere veloce per avere valore.


Memorie d’acqua e di silenzio


Entrare nel Molino Maufet di notte è come attraversare una soglia del tempo. L’acqua scorre nella roggia, incessante ma gentile; i muri di pietra trattengono il fresco, le travi odorano di legno antico, e il suono della ruota — anche quando immobile — sembra vibrare nella memoria.In quel silenzio, rotto solo dallo scroscio del canale, si possono quasi immaginare i gesti di chi, secoli fa, si alzava nel buio per alimentare il fuoco o per verificare che la macina non si fosse arrestata. Ogni scricchiolio, ogni goccia, ogni alito di vento sembra appartenere a una dimensione sospesa, tra il sogno e la veglia, come nel passaggio tra primo e secondo sonno.Forse il Molino è uno degli ultimi luoghi in cui il respiro della notte antica si può ancora ascoltare: lento, regolare, costante come l’acqua che ha modellato le sue pietre e scandito la vita dei suoi abitanti.


Ritrovare il tempo di mezzo


Riflettere sul “secondo sonno” oggi significa interrogarsi su ciò che abbiamo perduto insieme al buio, al silenzio e alla lentezza. Abbiamo guadagnato luce e velocità, ma abbiamo smarrito il tempo di mezzo, quello spazio sottile in cui l’anima respirava.Il Molino Maufet, con la sua storia e la sua voce d’acqua, ci ricorda che la lentezza non è immobilità, ma presenza. Che il tempo, come il sonno, ha bisogno di due battiti per essere completo: un momento per agire e un momento per sostare.Come la ruota che gira incessantemente, il Molino insegna che ogni movimento ha senso solo se preceduto da una pausa, e che la vera armonia nasce nell’alternanza: tra giorno e notte, luce e ombra, lavoro e riposo.Così, tra il primo e il secondo sonno, tra la ruota e la roggia, tra memoria e presente, il Molino Maufet continua a raccontare il valore del tempo che non si misura, ma si vive.


— Testo a cura del Molino Maufet – Colico (LC) —


 
 
 

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