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Acque.. “provvidenza e grattacapi”



Fino al XIX Sec. per la maggior parte delle attività industriali l'acqua rappresentò la principale forza motrice ed i diritti per la sua utilizzazione venivano stipulati con degli accordi privati o da contratti con l'autorità Comunale. Lo sfruttamento dava spesso adito a varie controversie tra gli avventori di un medesimo corso d'acqua; numerose vertenze vedevano i diversi mugnai in continua lotta per poter disporre della portata necessaria al buon funzionamento del proprio mulino.

Nei periodi di siccità, era di fondamentale importanza che ciascun mugnaio preservasse quanto più efficacemente possibile l’acqua che transitava dal suo mulino; i corsi d'acqua non dovevano dunque subire alcuna manomissione che non fosse stata altrimenti autorizzata. Chiuse e i canali dovevano sempre presentarsi in perfetto stato e l'eventuale irrigazione dei campi doveva essere pianificata di comune accordo con i proprietari dei mulini sottostanti. Si può ben comprendere che, nella quotidiana lotta per la sopravvivenza, per il mugnaio, l'acqua rappresentava un insostituibile alleato, un bene doppiamente prezioso; special modo dinanzi alle furberie che erano sempre in agguato e i dissidi che, non di rado, sfociavano in denunce o vie legali. Lo sfruttamento abusivo mediante derivazioni non autorizzate poteva privare di importanti sorgenti d’acqua interessando direttamente l’afflusso e l’operatività dei mulini. Se dunque l’acqua veniva incanalata e piegata alle esigenze quotidiane, si rivelava un bene conteso e difeso strenuamente.

Fu così anche per il corso d’acqua che, derivato dal Fiume Inganna, alimentava i Mulini di Villatico, attraverso la famosa Roggia Molinara. Quest’ultima sorgeva alle pendici del Monte Legnone e, attraversato l’intero abitato, si immetteva nel Fiume Perlino. Con il suo generoso afflusso, fin dal 1200 divenne uno strumento indispensabile per l’economia contadina del paese. Ebbene nel 1822, come riportato nel libro “A nome di..” di Giovanna Zugnoni, si evince che: un certo Dott. Carlo Sacchi di Gravedona realizzò delle opere abusive “derivando l’acqua del Fontanone di Tennasco dai suoi naturali canali… per irrigare il di lui monte, detto Monte Venini” con la scusa che già venissero derivate per abbeverare le bestie degli Alpeggi Tennasco e Rossa “e che dopo di questo scopo vanno disperse e non possono più servire pei mulini”. E’ cosi che nel 25 Giugno del 1822, la Deputazione Comunale, a firma Bettiga Gaggini, Masolini, gli rifiuta l’assenso, perché le acque del Fontanone “sono di ragione comunale” e non particolare. “Tutti i monti di Colico sono poi asciutti…. per cui devono tutti andar molto lunghi per abbeverare il proprio bestiame, dunque il Dr. Sacchi non ha alcun diritto di valersi di detta acqua e se questa Deputazione glie lo accordasse danneggerebbe tutti gli abitanti, anzi tutti pretenderebbero sull’ugual base de valersi anch’essi della detta acqua per irrigare i propri prati, e allora verrebbe del tutto tolta dal suo alveo l’acqua che in tempo di siccità non è sufficiente per la macina dei grani”.

Inoltre è falso che il Codice Napoleonico gli avesse accordato tale diritto all’acqua “per irrigare i propri terreni, ma solo se ne serviva per il di lui mulino.. detto di Cima che è gran tempo che è distrutto” Venne inoltre intavolata un’altra questione al vaglio della Deputazione che di fatto fu intransigente: Sacchi pretende di far uso esclusivo delle acque “che passano pel suo prato detto Pusterla e ha già formati dei canali per levare l’acqua” ma questa sorgente, detta “l’acqua della fevra” che si getta poi nella roggia nasce dalla “fontana posta sul fondo di Andrea Moreschi, livellario al comune” e quindi “è ancora di proprietà livella della Comune di Colico, e non del Sacchi”.


Nel 1822 il Sacchi non desiste e provengono alla Deputazione numerosi reclami scritti su carta bollata, prima a Luglio poi Agosto da parte dei “Molinari nella Frazione di Villatico” che non intendono subire la prepotenza del Sacchi “per essere un Signore e maggiore di ogni altro possidente” Succedettero dei sopralluoghi da parte degli stessi in Loc del Sacchi trovando due “picca pietra” che stavano lavorando per il Sig. Sacchi, preparando dei conci in sasso vivo, per il canale di deviazione dell’acqua in Loc. Tennasco. Il 30 Settembre, i “Molinari di Villatico” si rivolgono all’Imperial Regio Commissario di Como perché ponga freno a questa prepotenza, con “SUPPLICA – dei proprietari di alcuni edifici nel comune di colico pregiudicati notabilmente per effetto di un’invasione del Sig. Carlo Sacchi di Gravedona di cui addomandano una providenza cioè contro” Lamentano inoltre che la Deputazione Comunale “ha preso la cosa con freddezza” senza bloccare per giunta i lavori. Chiedono l’intervento immediato della Deputazione Provinciale per difendere la Proprietà Comunale e il “diritto degli edifici che fanno nel Comune pubblico comodo” Si fa dunque menzione della imminente stagione invernale, sfavorevole ai lavori e che stante i fatti ciò che edificato dal Sacchi potrebbe compromettere le opere di contenimento dell’Inganna effettuate l’anno precedente.

La “SUPPLICA” ottenne l’esito sperato e nell’ottobre del 1822 la Deputazione Comunale incarica un Perito per la verifica della situazione. Lo stesso tentimonia di una situazione allarmante, non tanto per la penuria d’acqua ma piuttosto per il pericolo di smottamenti e alluvioni che arrecherebbero danni irrimediabili al paese, cagionati dalla deviazione del Sacchi. Tali deviazioni porterebbero a delle Fontanelle nel terreno che cagionerebbero frane e il trasporto di materiale verso l’alveo del fiume Inganna, a lungo andare a rischio di compromissione. Nel novembre del 1822 il Sacchi sottoposto a pressioni, minacce e sanzioni cerca un compromesso e si rende disponibile a rinunciare all’acqua e a convogliarla “in tempo di scarsità, cioè quando gli opifici ne potrebbero averne bisogno…” alla roggia dei detti Mulini. L’anno successivo l’Amministrazione Comunale ribadisce che “le innovazioni pretese dal Dott. Sacchi sono di molto pregiudizio al Comune e lo mettono in pericolo di vedere sue frazioni spogliate dell’acqua necessaria agli usi della vita” e ordina “la distruzione delle novità fatte alle acque del Monte Tennasco…” Nel Luglio del 1823 ottiene l’appoggio della Commissione Distrettuale di Bellano che rifiuta al Sacchi il Diritto accampato perché “non fu mai fatto uso di dette acque che per mettere in moto un mulino che ora trovasi distrutto” e mai servirono per Tennasco e Rossa che usufruiscono dei pozzi e fonti proprie. Nel Luglio dell’anno successivo viene autorizzata dalla Delegazione Provinciale “ a stare in giudizio contro il Dr. Sacchi di Gravedona per la distruzione delle novità fatte alle acque”.


Gli viene suggerito di prendersi un Avvocato (patrocinatore) per produrre delle giustificazioni a quanto cagionato. Si avvia cosi a conclusione questa lotta per il controllo dell’acqua, per la difesa di un bene collettivo quanto mai attuale. Più in generale e per porre un freno a queste incresciose situazioni, si introdussero delle severe sanzioni e l’obbligo di una concessione per l’utilizzo delle acque a scopo agricolo industriale che sottostava ad un’imposta proporzionale alla forza utilizzata. Tale imposta era spesso mal gradita dai mugnai o da coloro che possedevano una ruota perché soggiogava a dei rapporti iniqui fra dimensione della ruota e rendimento di produzione. Si rese dunque necessario una sorta di “catasto delle utilizzazioni” che interessava ciascun corso d’acqua. Si ipotizza che in esso, oltre ai dati riguardanti il proprietario, si trovavano elencati: il tipo di attività svolta, i volumi d'acqua a disposizione e quelli utilizzati, le quote, i dati sui meccanismi ecc.. L’acqua, se “domata sapientemente”, risultava un instancabile alleato e presupposto perché le macine potessero girare, altro modo si poteva trasformare in un feroce nemico.

E’ ragionevole pensare che i mulini non fossero sempre costruiti in luoghi privi di disagi, spesso anzi si trovavano in luoghi angusti, con estrema vicinanza al corso d’acqua ed in balia della sua imprevedibilità. Non di rado venivano così a verificarsi improvvisi smottamenti del terreno, frane, dighe e infiltrazioni che potevano compromettere la struttura e dunque l’attività ad essa legata. Insomma, i disastri naturali, non potendosi prevedere, se non con l’astuzia e il senno di poi, venivano percepiti come vere sciagure mentre inconvenienti minori, con soli danni materiali di piccola entità, passavano per normale amministrazione. Ciò che portava alla chiusura temporanea dell’attività, anche se per pochi giorni, era quasi visto come un evento straordinario e degno di menzione. Nel molino Maufet sulla porta di una credenza venne testualmente scritto che ..per manutenzione nell’anno 1926 dal giorno 19 Luglio il mulino rimase chiuso per giorni 16.

Nell’Almanacco Valtellinese dall’anno 1000 sino al 1957 vennero menzionati ben 108 eventi metereologici avversi che cagionarono ingenti danni e disgrazie. Per farne differenti esempi: nel 1678 – gravi inondazioni nella Bassa Valtellina “onde non vi era sicurezza alcuna nella pianura, poca nei monti e pochissima nelle alpi e nelle valli a cagione degli alberi sbarbicati e dei corsi d’acqua esondati” nel 1868 – dopo un mese di piogge insistenti, la Valtellina è sconvolta da nubifragi e inondazioni. Una piena disastrosa sconvolge i lavori in corso per la costruzione del canale navigabile tra il Lago di Mezzola e quello di Como nel 1911 e 1927 – gravi alluvioni ed ingenti danni in tutta la Valtellina e Valchiavenna nel 1953 - ore di paura in Valchiavenna per l’esondazione del Fiume Schiesone. Pochi minuti per consentire ad un’enorme massa d’acqua di investire l’abitato. Materiale detritico accomulatosi probabilmente per decenni nell’alveo del fiume, o forse secoli. Ferrovia distrutta, 100 ettari di terreni rimasero isterilite e 120 famiglie di Prata, Gordona e Samolaco subirono danni economici ingentissimi, perdita del prodotto e distruzione delle proprie abitazioni. Rovine e lutti di gente semplice che con la speranza di una protezione offerta dalle quattro semplici mura, atterriti msi chiedevano quanto tempo avrebbero potuto resistere alla furia improvvisa degli elementi. Secondo un testimone dell’epoca (Stefano Jacini) “le piene dei torrenti (fra i quali l’Adda) sino al 1820 si sono verificate ogni 51 mesi, mentre tra il 1850 ed il 1870 se ne verificò una ogni ogni 18 mesi, con conseguenze spesso disastrose”.

La Storia si ripete ciclicamente insegna senza se e senza ma a chi è disposto a riflettere e capire; per colui che con umiltà non si mette su un piedistallo sapendo della propria labile posizione umana. Se dunque sulla terra che l’ignoranza della prepotenza o la virtù della sapienza fanno talvolta la differenza, in un contenzioso che non dovrebbe, a prescindere, generarsi, rimaniamo polvere al vento per cio che non sappiamo e non possiamo controllare. Se l’uomo trova dibattito con il suo pari, nessuna ingiustificata mancanza si giustifica al cielo ed ai suoi capricci, per il quale c’è solo un modo per comportarsi, sedersi ed osservare, ed ancora una volta imparare.


©️ Archivio Fotografico Associazione Molino Maufet


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